Il valore delle persone

Intervista al nostro (non convenzionale) HR Director, Andrea Picco

 

Andrea, come nei migliori colloqui, partiamo dalla tua presentazione.

Sono nato a Milano “intorno agli anni 70”. Ho una laurea in diritto internazionale. Salvo qualche congiuntivo, parlo bene italiano e molto bene spagnolo e inglese. Un petit peux de francais mi ha permesso di fare sorridere i miei ex colleghi parigini negli anni. Ho una moglie meravigliosa che mi tollera da quasi 30 anni, due figli grandi che studiano rispettivamente in Olanda e in Sicilia, e una “piccolina” che fa il liceo. Viviamo a Bergamo in una vecchia casa che condividiamo con Minou, una micia Ragdoll, e Paco, un invadente Bovaro Bernese.

 

Da quanto tempo ti occupi di risorse umane?

Mi occupo di risorse umane dal 1997. Era proprio nello scorso millennio in cui mi sono occupato, appena assunto, di implementare politiche del Personale in un gruppo di aziende commerciali di oltre 400 persone, dislocate in quasi tutto il mondo. Era decisamente il lavoro giusto per me, che mi ha portato a viaggiare e a confrontarmi con culture diverse tra loro. Ho vissuto in Canada dal 2001 al 2005, occupandomi dello start up di uno stabilimento e della creazione della funzione HR. Successivamente, ho seguito progetti internazionali in Africa e Medio Oriente. Ho incontrato per caso il gruppo Raccortubi nel 2015 in un momento in cui volevo cambiare prospettiva e mi ha entusiasmato il progetto di poter costruire dalle fondamenta la funzione HR.

 

Cosa vuol dire lavorare nelle risorse umane oggi? Come si è evoluto il ruolo?

La direzione del personale è una rivoluzione continua, ciò che per anni le aziende hanno costruito in termini di processi HR è diventato così complesso da venire poi smantellato. Oggi siamo in una fase totalmente nuova, in cui le persone sono protagoniste e non soggetti, e l’area HR è un’area di servizi e non un centro di “potere”, com’era una volta. Le nuove generazioni sono esigenti e quello che motivava in passato, oggi non è più sufficiente. Le aziende devono offrire sostegno, opportunità di sviluppo, trasparenza, ambienti di lavoro sereni. Sta finendo il tempo dei cartellini e degli orari fissi, vacanze fisse, etc. I lavoratori hanno famiglie, figli, genitori anziani, preoccupazioni e necessità. Il lavoro flessibile, ibrido, smart, sono soluzioni che permettono di lavorare con maggiore serenità e potersi dedicare anche alle necessità della vita personale. Ci sono coppie che non vanno mai in vacanza insieme perché lavorano in aziende che impongono quando farlo. Queste situazioni sono il peggior lato della gestione antiquata del personale.

Viviamo in un paese che offre salari tra i più bassi d’Europa e che non ha praticamente nessuna politica di sostegno alle famiglie. Così sono le aziende che hanno la responsabilità etica di sostenere i collaboratori nei momenti critici delle loro vite, in qualsiasi modo. Anche risparmiare sul pieno di benzina (con il lavoro smart), è un piccolo aiuto, e occorre solo buon senso.

 

Come HR Mgr, in cosa credi? Quale filosofia porti avanti?

Credo che le persone debbano realizzarsi nel lavoro, e non debbano, invece, esserne schiacciate. Si può essere felici lavorando e lo si è quando si fischietta andando al lavoro. L’ambiente sano e aperto, la flessibilità, la comunicazione, sono elementi imprescindibili su cui si deve investire. Ci si deve occupare di chi è in difficoltà e trovare sempre il meglio in ciascuno.

Sono un incrollabile sostenitore delle relazioni fondate sulla fiducia: orari liberi, ferie illimitate non sono concetti impossibili se si crea il giusto ambiente di lavoro. È tutta lì la sfida. Quanto ci fidiamo di chi lavora con noi?

 

Quanto è importante investire sul benessere delle persone? Perché?

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di rispondere, se ci si pensa bene. Passiamo la maggior parte della nostra vita lavorando. Chi lavora in ambienti inclusivi, positivi, dove le persone vengono valorizzate e sostenute, ha una grande fortuna. L’azienda, inoltre, ha un potere negoziale molto superiore a quello del singolo, quindi è importante prendere tutte quelle iniziative che sollevano i collaboratori da gravosi impegni personali o ne limitano il costo. La salute e la prevenzione, per esempio, sono aspetti importanti della vita delle persone, e molto spesso trascurate, vuoi per i costi, vuoi per la mancanza di tempo. Programmi di prevenzione, orari flessibili che permettano di accomodare tutte le visite mediche necessarie per sé e per i figli, sono benefits di importanza strategica che oltre a generare consenso e appartenenza nei lavoratori, costruiscono una reputazione aziendale che oggi è – giustamente – sempre più incentrata su queste tematiche, piuttosto che sui profitti. Da lavoratore che ha vissuto l’ambiente industriale di grandi dimensioni, ricordo i tempi in cui portavo i bambini con la febbre la domenica dal medico della nostra infermeria, invece che al pronto soccorso. Benefit di questo tipo – come mi disse un collega una volta – ti fanno sentire “un gigante”, al di là della posizione che rivesti.

 

La formazione: c’è chi ne vorrebbe fare sempre di più e chi, invece, non trova mail il tempo per partecipare. È importante farne tanta? E che tipo di formazione è richiesta oggi dal mercato del lavoro?

Credo che non sia importante farne tanta, ma fare quella che serve. Quello su cui stiamo investendo maggiormente oggi è la formazione interna, ovvero preparata dal nostro stesso management. In tal modo, si guadagna in flessibilità, si azzerano i costi, si motivano le persone da entrambe le parti e i contenuti si possono creare con declinazioni infinite, a seconda di ciò che serve. Una formazione cucita sulle esigenze specifiche della nostra realtà.

 

Quanto è importante avere dipendenti motivati e allineati con il Management? Che ruolo gioca la comunicazione interna all’azienda?

La comunicazione è il “braccio destro” del personale. La cosa di cui ci si lamenta nelle aziende è che “manca la comunicazione”. La sensazione che tutto si decida “nelle stanze segrete”, genera malcontento ad annulla la naturale esigenza di sentirsi appartenere all’azienda. Bisogna comunicare bene, senza pause ed incertezze, tutti i collaboratori devono percepire che c’è trasparenza nei processi decisionali e gestionali. E se l’azienda ha le giuste iniziative, comunicarle amplifica la partecipazione e gli effetti benefici. Bisogna tentare di portare “in pista” anche chi sta sempre seduto in fondo alla sala da ballo.

 

Quali iniziative hai promosso, nella tua esperienza in Raccortubi, per creare un ambiente di lavoro migliore?

Molto si è fatto, anche se ogni giorno penso a qualcosa da migliorare.

Abbiamo reso flessibile l’orario di lavoro, e per certe categorie addirittura liberalizzato del tutto. Abbiamo sviluppato convenzioni per i lavoratori allo scopo di aumentare il loro potere di acquisto; ad esempio con la piattaforma “Ennevolte”. Abbiamo avviato un programma di prevenzione e salute di altissimo livello, in collaborazione con LILT, grazie al quale abbiamo offerto visite di controllo tematiche (uomo – donna – cardio – pelle) con cadenza biennale, in azienda e totalmente gratuite per i dipendenti.

Lo “smart-working” è diventato finalmente una realtà acquisita, con una politica ufficiale snella e flessibile, che pensa prima di tutto ai soggetti più deboli e alle famiglie con bambini.

La nostra piattaforma di Welfare “OneFlex” (in collaborazione con AON), permette di convertire il premio di risultato in welfare attraverso un portale “user-friendly”, e di aumentarne così il valore. Inoltre, grazie al contratto integrativo in essere, l’azienda effettua dei versamenti annualmente nel “conto welfare” di ciascuno, e sono previsti contributi speciali per le neomamme / papà.

 

Passando alla sfera “recruiting” … Davvero si riesce a capire una persona nel tempo di un colloquio? Può capitare di fare errori di giudizio?

Capita eccome, il recruitment non è una scienza esatta. Non si può capire tutto di una persona nel tempo di un colloquio, ma si può cercare di usare il tempo del colloquio per capire il più possibile: bisogna mettere a proprio agio l’interlocutore perché ci racconti le cose che ci possono aiutare a valutare come si comporterà una volta in azienda. Questo è lo scopo “predittivo” di tutti i colloqui. A proposito…ormai il termine colloquio è già antiquato, meglio parlare di “intervista”, o semplicemente di “incontro”.

 

Raccontaci qualche aneddoto dei colloqui di lavoro a cui hai assistito/che hai condotto?

In oltre 25 anni, ho assunto a vario titolo più di 1.000 persone. Se avessi preso nota di tutte le cose più strampalate che ho ascoltato, ora ne potrei fare un best seller… Potrei menzionare il giovane ingegnere che mi raccontò che al liceo inseguiva l’insegnante di matematica fino sotto casa per terrorizzarla.

O di quel giovane che, in una prova di selezione di gruppo, iniziò la seduta dicendo “se siete d’accordo, comando io”. O ancora, una ragazza, in un campus universitario in Arabia Saudita, che non avendo avuto il permesso della famiglia di presentarsi ad una prova di gruppo, mandò suo fratello.

 

Quali domande sono off limits in un colloquio e quali invece andrebbero chieste di più?

Oggi un’intervista deve necessariamente puntare a conoscere la persona in modo approfondito, e l’unico modo è metterla a suo agio. Per questo i colloqui sono sempre più lunghi e meno strutturati. Dopo i primi imbarazzi le persone si lasciano andare e conoscere. Questo aspetto è importante perché ancor più di cosa un candidato conosce o sa fare, è che persona si nasconde dietro la facciata, e come si integrerà nell’azienda. È lì che si annidano gli errori peggiori. Quindi niente più “dove si vede tra 5 anni”, e altre domande scontate che producono solo risposte scontate. Bisogna puntare a creare una sintonia unica con ogni persona.  Oggi l’intervista è diventata nettamente bi-direzionale, non serve solo a fare domande, ma anche a dare una descrizione onesta del lavoro che si sta offrendo. Anche i candidati hanno il diritto di farsi un’idea, altrimenti potranno essere tratti in inganno e non rimanere a lungo termine. Questo sarebbe un autogol.

Domande off-limits sono quelle che afferiscono a sfere molto personali della propria vita, dove anche con tutte le cautele e con il feeling migliore, si rischia di fare un danno irreparabile. Domandare a una donna (ma anche ad un uomo) se desidera farsi una famiglia, anche se fatto ingenuamente per conoscere l’interlocutore, quasi sicuramente genererà la sensazione che cerchiamo di evitare di gestire una maternità o paternità: quindi, diamo per scontato che ciascuno può volere una famiglia oppure no, e non è affar nostro.

Se posso aggiungere, mai e poi mai, chiedere di presentare una busta paga.

 

Per rimanere in tema, volgendo al termine, qual è il modo migliore per concludere un’intervista?

Anche in questo caso i tempi cambiano, e un colloquio non è più “a senso unico”. Quindi invece che concluderlo con il classico “le faremo sapere” potremmo, invece, dare maggior valore al candidato, chiedendogli secondo LUI/LEI com’è andata.



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